Diritto Civile


Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 25255 - pubb. 07/05/2021

Privacy: danno non patrimoniale, verifica della gravità della lesione e della serietà del danno e onere della prova

Cassazione civile, sez. I, 26 Aprile 2021, n. 11020. Pres. Genovese. Est. Fidanzia.


Privacy – Divulgazione dati personali – Soggetto responsabile

Privacy – Danno non patrimoniale – Verifica della gravità della lesione e della serietà del danno – Necessità – Prova – Presunzioni – Ammissibilità



Dei danni determinati dall’illecita divulgazione di dati personali, ai sensi del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 15, comma 1, deve rispondere chiunque, con la propria condotta, li abbia eziologicamente provocati, indipendentemente dalla qualifica rivestita, sia di titolare o sia di responsabile del trattamento dati.

Il danno non patrimoniale risarcibile, ai sensi del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 15 (codice della privacy), pur determinato da una lesione del diritto fondamentale alla protezione dei dati personali tutelato dagli artt. 2 e 21 Cost. e dall’art. 8 della CEDU, non si sottrae alla verifica della "gravità della lesione" e della "serietà del danno", in quanto anche per tale diritto opera il bilanciamento con il principio di solidarietà ex art. 2 Cost., da cui deriva (come intrinseco precipitato) quello di tolleranza della lesione minima è, sicché determina una lesione ingiustificabile del diritto non la mera violazione delle prescrizioni poste dall’art. 11 del codice della privacy, ma solo quella che ne offenda in modo sensibile la sua portata effettiva, restando comunque il relativo accertamento di fatto rimesso al giudice di merito.

Deve, inoltre, rilevarsi che il danno alla privacy, pur non essendo, come ogni danno non patrimoniale, in "re ipsa", non identificandosi il danno risarcibile con la lesione dell’interesse tutelato dall’ordinamento, ma con le conseguenze di tale lesione, può essere, tuttavia, provato anche attraverso presunzioni (vedi in materia di lesione del danno non patrimoniale dell’onore, Cass. n. 25420 del 26/10/2017, i cui principi, sotto il profilo della prova del danno, sono applicabili anche al caso in esame). (Redazione IL CASO.it) (riproduzione riservata)


 


Fatti

L’avv. A.B. , già funzionario di cancelleria presso il Tribunale di * - incarico cessato nel 2008 per sue dimissioni volontarie - ha proposto ricorso D.Lgs. n. 196 del 2003, ex art. 152, finalizzato ad ottenere la condanna di S.R. al pagamento a suo favore della somma di Euro 5.200,00, quale risarcimento del danno non patrimoniale subito per l’illecita divulgazione, ad opera di costei, di dati personali (riguardanti il legale, ex dipendente) coperti da riservatezza.

In particolare, la sig.ra S. , nel presentare un esposto al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di * - nel quale aveva denunciato che l’avv. A. , in sede di audizione in un procedimento disciplinare di una dipendente del Tribunale di *, e quale difensore di quest’ultima, aveva tenuto comportamenti deontologicamente scorretti - aveva esordito nello stesso esposto evidenziando che il A. , prima di esercitare, la professione di avvocato, era stato un dipendente del Tribunale di * dalla stessa più volte sottoposto a procedimento disciplinare.

Il Tribunale di * ha accolto la domanda dell’avv. A. , condannando S.R. al pagamento della somma richiesta a titolo di danno non patrimoniale, nonché al pagamento d’ufficio della somma di Euro 8.550,00, ex art. 96 c.p.c., comma 3.

Il giudice monocratico fiorentino ha ritenuto che con la presentazione dell’esposto all’Ordine degli Avvocati di * - archiviato perché ritenuto infondato - la S. aveva violato il diritto alla riservatezza del A. , divulgando i propri dati sensibili riguardanti alcuni precedenti giudizi disciplinari promossi dalla stessa, quale dirigente del Tribunale di * e superiore gerarchica, nei confronti dell’allora cancellerie A. , senza dar conto degli annullamenti delle sanzioni dalla stessa irrogate, e quindi con una comunicazione finalizzata a gettare discredito sulla immagine e sulla reputazione del legale proprio nel ristretto ambiente lavorativo in cui era da breve tempo entrato (due anni).

Avverso la predetta sentenza ha proposto ricorso per cassazione S.R. , affidandolo a quattro motivi.

A.B. resiste con controricorso, con il quale ha eccepito l’improcedibilità del ricorso, ai sensi dell’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 1, per mancato deposito, unitamente al ricorso, della copia autentica della sentenza impugnata.

Il controricorrente ha depositato la memoria ex art. 380 bis c.p.c., comma 1.

 

Motivi

1. Prima di illustrare i motivi del ricorso, deve esaminarsi l’eccezione di improcedibilità del ricorso sollevata dall’avv. A. , che deve essere rigettata per infondatezza.

In proposito, va osservato che questa Corte (Cass. n. 26520 del 09/11/2017) ha stabilito che, in tema di ricorso per cassazione, fino all’attivazione del processo civile telematico, il difensore del ricorrente assolve all’onere, previsto a pena di improcedibilità dall’art. 369 c.p.c., di depositare copia conforme all’originale del provvedimento impugnato, ove non abbia disponibilità della stessa con attestazione di conformità rilasciata dalla cancelleria, estraendo una copia analogica dall’originale digitale presente nel fascicolo informatico ed attestando la conformità dell’una all’altro, ai sensi del D.L. n. 179 del 2012, art. 16-bis, comma 9-bis.

Nel caso di specie, il ricorrente ha adempiuto tale formalità, avendo l’avv. Piergiorgio Masi, difensore della ricorrente, attestato (come emerge dai documenti uniti alla sentenza impugnata), ai sensi del D.L. n. 179 del 2012, art. 16 bis, comma 9 bis e art. 16 undecies, comma 3, che la copia della sentenza depositata è conforme all’originale telematico della sentenza del Tribunale di * n. 2475/2016 estratto dal fascicolo informatico RG 213/2015 del Tribunale di *.

2. Quanto ai motivi proposti dalla ricorrente, con il primo è stata dedotta la violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 10.

Ha eccepito la ricorrente il proprio difetto di legittimazione passiva, atteso che l’azione giudiziaria ex art. 152 legge cit. avrebbe dovuto essere rivolta contro il titolare del trattamento dati, che si identifica nel Presidente del Tribunale, mentre Ella, avendo agito nella sua qualità di dirigente della cancelleria del Tribunale di *, rivestiva la diversa funzione di mero responsabile del trattamento.

3. Il motivo è infondato.

Il giudice di primo grado ha già correttamente rilevato che il D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 10, costituisce una norma sulla competenza e non sulla legittimazione passiva, in relazione alla quale deve, invece, farsi riferimento all’art. 15 comma 1 legge cit, secondo cui "chiunque cagiona danno per effetto del trattamento dei dati personali è tenuto al risarcimento dei danni ai sensi dell’art. 2050 c.c.".

Pertanto, va affermato il principio di diritto, secondo cui, dei danni determinati dall’illecita divulgazione di dati personali, ai sensi del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 15, comma 1 (applicabile ratione temporis), deve rispondere chiunque, con la propria condotta, li abbia eziologicamente provocati, indipendentemente dalla qualifica rivestita, sia di titolare o sia di responsabile del trattamento dati.

4. Con il secondo motivo è stata dedotta la violazione e/o falsa applicazione del D.P.R. 10 gennaio 1957, art. 23, in relazione all’art. 28 Cost..

Assume la ricorrente di aver presentato l’esposto nei confronti dell’avv. A. nell’esercizio delle proprie funzioni di Dirigente di Cancelleria per stigmatizzare il comportamento dell’avv. Mazzotta che, nel corso di un’audizione in sede disciplinare, aveva cercato di intimidirla nella sua funzione di titolare del potere sanzionatorio. Il breve riferimento ai precedenti procedimenti disciplinari azionati nei confronti dell’avv. A. , quando Egli era dipendente pubblico, non poteva essere estrapolato da tale contesto, svilendo la dichiarata finalità istituzionale che sorreggeva l’esposto. Ne conseguiva che la sentenza impugnata aveva violato l’art. 23 legge sopra citata, per non essere la eventuale violazione della privacy stata posta in essere con dolo o colpa grave.

5. Il motivo è inammissibile.

Va osservato che il Tribunale di *, con una motivazione congrua ed immune da vizi logici (neppure censurata sotto il profilo strettamente inerente alla stessa motivazione), ha ritenuto sussistente il requisito dell’elemento soggettivo (dolo o colpa grave), evidenziando che la ricorrente, nel far riferimento ai precedenti procedimenti disciplinari dell’odierno controricorrente, non aveva neppure dato conto degli annullamenti delle sanzioni dalla stessa irrogate. Inoltre, in ogni caso, quella divulgazione di dati nulla aveva a che fare con l’esposto e con la finalità istituzionale che sorreggeva l’operato della ricorrente, avendo l’unica finalità di gettare discredito sull’avv. A. , allo scopo di meglio convincere i destinatari della fondatezza dello stesso esposto.

Non vi è dubbio che l’apprezzamento del giudice in ordine alla sussistenza dell’elemento soggettivo del fatto illecito addebitato ad un soggetto costituisca una valutazione in fatto non sindacabile in sede di legittimità se sorretto - come lo era nel caso di specie - da adeguata motivazione immune da vizi logici.

6. Con il terzo motivo è stata dedotta la violazione del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 15 e degli artt. 2050 e 2697 c.c..

Espone la ricorrente che non era stata integrata la violazione dell’art. 15 codice della privacy, atteso che la divulgazione della notizia riservata era avvenuta non in un ambiente generico, caratterizzato dalla generalità indiscriminata delle persone, ma in un ambiente qualificato e deputato per disposizione di legge ad esercitare una funzione paragiurisdizionale, essendo il Consiglio dell’ordine degli Avvocati, in sede disciplinare, "giudice" del proprio iscritto.

Peraltro, l’aver enunciato l’esistenza di pregressi procedimenti disciplinari a carico del A. rientrava nell’esercizio del potere difensivo ex art. 24 Cost., di colei che aveva presentato l’esposto.

Espone, inoltre, la ricorrente che non vi è prova che la menzione dell’esistenza di procedimenti disciplinari intentati dalla S. (effettuata al scolo scopo di meglio descrivere i rapporti tra le parti) avesse avuto come conseguenza un danno risarcibile, avendo potuto il controricorrente prontamente evidenziare che gli stessi procedimenti erano stati annullati. Si trattava quindi di circostanza che poteva essere "smontata" per tabulas.

Infine, la ricorrente, oltre a contestare che la prova dell’esistenza e del quantum del danno potessero essere fornite rispettivamente in via presuntiva ed in via equitativa, assume che, nel caso di specie, non vi è stata alcuna dimostrazione dell’au della pretesa risarcitoria.

7. Il motivo presenta profili di infondatezza ed inammissibilità.

Va preliminarmente osservato che non vi è dubbio che il trattamento delle informazioni personali effettuato nell’ambito di un esposto al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati in relazione ad una asserita condotta deontologicamente scorretta posta in essere da un legale sia lecito purché, tuttavia, avvenga nel rispetto del criterio di minimizzazione nell’uso dei dati personali, dovendo essere utilizzati solo i dati indispensabili, pertinenti e limitati a quanto necessario per il perseguimento delle finalità per cui sono raccolti e trattati. Tale principio era ben espresso dal D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 3, recante il titolo "principio di necessità nel trattamento dei dati", e dall’art. 11, lett. d) legge cit., richiedente la pertinenza, la completezza e non eccedenza dei dati rispetto alle finalità per cui sono raccolti e trattati - tali articoli sono stati recentemente abrogati a seguito dell’entrata in vigore del D.Lgs. 10 agosto 2018, n. 101, - ed è stato recentemente riaffermato con l’entrata in vigore dell’art. 5, lett. c), del regolamento Europeo sulla protezione dei dati personali 2016/679.

Nel caso di specie, il Tribunale di * ha correttamente ritenuto illecita la divulgazione da parte dell’odierna ricorrente non delle informazioni relative all’asserita condotta deontologica mente scorretta dell’avv. A. nell’esercizio della professione di avvocato - in relazione alle quali non occorre il consenso dell’interessato, data la rilevanza pubblica, di natura paragiurisdizionale, delle funzioni attribuite al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati - ma di quei dati relativi ai pregressi procedimenti disciplinari del legale (quando Egli era un impiegato pubblico), non funzionali e pertinenti rispetto allo scopo per cui erano stati trattati (accertare l’esistenza di eventuali illeciti disciplinari nell’esercizio della professione in oggetto) ed erano, inoltre, stati esposti in modo parziale e malizioso, occultando la circostanza pacifica che gli stessi procedimenti erano stati archiviati e le sanzioni irrogate erano state annullate.

Dunque, non è ostativa all’integrazione della violazione dell’art. 15 codice della privacy la mera circostanza che la divulgazione della notizia riservata avvenga nel contesto di un procedimento di rilevanza pubblica, risultando comunque illecita la comunicazione dei dati personali non pertinente ed eccedente le finalità per cui essi sono raccolti e trattati.

Nel caso di specie, tale principio è stato chiaramente violato e correttamente il giudice di primo grado lo ha evidenziato.

In ordine al risarcimento dei danni, va preliminarmente osservato che questa Corte (vedi Cass. n. 17383 del 20/08/2020) ha già enunciato il principio di diritto secondo cui il danno non patrimoniale risarcibile, ai sensi del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 15 (codice della privacy), pur determinato da una lesione del diritto fondamentale alla protezione dei dati personali tutelato dagli artt. 2 e 21 Cost. e dall’art. 8 della CEDU, non si sottrae alla verifica della "gravità della lesione" e della "serietà del danno", in quanto anche per tale diritto opera il bilanciamento con il principio di solidarietà ex art. 2 Cost., da cui deriva (come intrinseco precipitato) quello di tolleranza della lesione minima è, sicché determina una lesione ingiustificabile del diritto non la mera violazione delle prescrizioni poste dall’art. 11 del codice della privacy, ma solo quella che ne offenda in modo sensibile la sua portata effettiva, restando comunque il relativo accertamento di fatto rimesso al giudice di merito.

Deve, inoltre, rilevarsi che il danno alla privacy, pur non essendo, come ogni danno non patrimoniale, in "re ipsa", non identificandosi il danno risarcibile con la lesione dell’interesse tutelato dall’ordinamento, ma con le conseguenze di tale lesione, può essere, tuttavia, provato anche attraverso presunzioni (vedi in materia di lesione del danno non patrimoniale dell’onore, Cass. n. 25420 del 26/10/2017, i cui principi, sotto il profilo della prova del danno, sono applicabili anche al caso in esame).

Nel caso di specie, il giudice di merito ha fatto un corretto uso di tale principi.

Il Tribunale di * ha avuto cura di verificare la "gravità della lesione" e la "serietà del danno", evidenziando che la divulgazione di una pluralità di procedimenti disciplinari a carico dell’avv. A. - "peraltro generica e dunque maggiormente offensiva in quanto allusiva (aperta a qualunque interpretazione soggettiva) "- era stata effettivamente dannosa, determinando conseguenze inevitabilmente negative, oltre che sulla sfera emotiva dell’odierno controricorrente (già provato da procedimenti disciplinati infondati), sulla sua immagine e sulla sua reputazione sociale nel ristretto ambiente lavorativo in cui era da breve tempo entrato (due anni). In particolare, il giudice di merito ha messo in luce la condizione di particolare fragilità in cui si trova un avvocato iscritto all’Ordine forense solo da un paio d’anni, il quale è soprattutto impegnato nella costruzione di una propria immagine e credibilità professionale non solo in relazione ai potenziali clienti, ma anche rispetto a quei colleghi che possono così sensibilmente incidere sulla sua attività, anche per il futuro.

L’articolato ragionamento del giudice monocratico fiorentino, costituendo un apprezzamento di fatto sorretto da un’adeguata motivazione, si sottrae ad ogni sindacato in sede di legittimità.

8. Con il quarto motivo è stata dedotta la violazione dell’art. 96 c.p.c., comma 3, sul rilievo che non si può rimproverare alla parte ricorrente di aver resistito in giudizio, costituendo un diritto costituzionalmente garantito.

Inoltre, la ricorrente evidenzia che non poteva prevedere l’esito negativo per la stessa del giudizio, tenuto conto che in altro analogo procedimento ex art. 702 c.p.c., il giudice monocratico del Tribunale di * aveva respinto l’azione promossa dall’avv. A. in ordine all’esposto dalla stessa presentato nei suoi confronti al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di *.

9. Il motivo è fondato.

Va preliminarmente che è orientamento consolidato di questa Corte che la condanna ex art. 96 c.p.c., comma 3, applicabile d’ufficio in tutti i casi di soccombenza, configura una sanzione di carattere pubblicistico, autonoma ed indipendente rispetto alle ipotesi di responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c., commi 1 e 2, e con queste cumulabile, volta alla repressione dell’abuso dello strumento processuale; la sua applicazione, pertanto, richiede, quale elemento costitutivo della fattispecie, il riscontro non dell’elemento soggettivo del dolo o della colpa grave, bensì di una condotta oggettivamente valutabile alla stregua di "abuso del processo", quale l’avere agito o resistito pretestuosamente (vedi Cass. n. 20018 del 24/09/2020; in senso conforme, Cass. n. 27623 del 21/11/2017; Cass. n. 29812 del 18/11/2019).

Nel caso di specie, la sentenza impugnata non ha in alcun modo evidenziato la sussistenza di un "abuso del processo" perpetrato dalla ricorrente nel resistere in giudizio, al di là della fisiologica confutazione delle deduzioni della controparte processuale. Nè può essere ritenuta come sintomatica di una irragionevole difesa ad oltranza delle posizioni dell’odierna ricorrente la circostanza che durante l’iter processuale fosse già stata adita questa Corte in sede di regolamento di competenza, dipendendo tale appesantimento processuale dall’ordinanza del Tribunale di * che aveva dichiarato la propria incompetenza per territorio, ritenendo competente - in base all’art. 10 della legge sulla privacy - il Tribunale di Pistoia. Tale ordinanza, in accoglimento delle ragioni della ricorrente, è stata annullata da questa Corte con sentenza n. 22526/2014, che, stabilendo la competenza del Tribunale di *, ha enunciato il principio di diritto secondo cui la competenza si determina in relazione alla sede del soggetto titolare del trattamento dei dati personali.

Deve, pertanto, cassarsi il provvedimento impugnato in relazione al motivo accolto e, decidendo la causa nel merito ex art. 384 c.p.c., comma 2 (non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto), deve escludersi la condanna ex art. 96 c.p.c..

In ordine alle spese di lite, deve confermarsi la statuizione del giudice di primo grado, essendo stata da quest’ultimo correttamente accertata l’invocata violazione del trattamento dei dati personali, mentre devono compensarsi le spese del giudizio di legittimità in ragione della reciproca soccombenza delle parti.

 

P.Q.M.

Accoglie il quarto motivo, respinti i precedenti. Cassa il provvedimento impugnato in relazione al motivo accolto, e, decidendo la causa nel merito, esclude la condanna ex art. 96 c.p.c.. Conferma nel resto l’impugnata sentenza.

Conferma le spese del giudizio di primo grado e compensa le spese del giudizio di legittimità.

Dep. 26 aprile 2021.